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I FEDAYN DELLA MADONNINA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La sorprendente esperienza dei preti-operai a San Giovanni

Verso la fine del 1973 arrivarono nel nostro paese quattro giovani preti. A vederli per la strada non sembravano affatto dei sacerdoti perché vestivano come tutti i giovani della loro età ed avevano un atteggiamento ben diverso da quello dei curati che eravamo abituati a vedere da sempre. Ci si rivolgeva loro usando il “tu” e senza mettere davanti al nome il tradizionale “don”. Per tutti erano semplicemente Gigi, Corrado, Sergio e Piergiorgio. Una piccola rivoluzione, per quei tempi. Ma la cosa che fece più scalpore fu il fatto che questi giovani avevano deciso che si sarebbero guadagnati da vivere lavorando, come qualsiasi altra persona. Sarebbero quindi stati preti-operai.
Eccola, la rivoluzione, quella vera. Ma ecco anche lo scandalo e la paura della Gerarchia. Il vento del Sessantotto aveva infatti soffiato anche sul Seminario alimentando nuove idee e nuove speranze nei giovani aspiranti preti. Non era più possibile star fermi o pregare e basta. Bisognava darsi da fare, partecipare, comprendere, lavorare. Appunto, lavorare. Ecco la nuova strada. Ma lavoro significa anche indipendenza economica e l’indipendenza convive difficilmente con l’obbedienza. Il Vescovo Carraro aveva capito tutto e cercava i rimedi. Ma era anche quel vescovo che mesi prima aveva celebrato la Messa di Natale nella cartiera occupata dagli operai.Non poteva tradire se stesso, ma non poteva nemmeno sciogliere tutte le briglie e lasciare i cavalli galoppare liberamente nella prateria. Diamine, anche lui doveva in qualche modo rendere conto, giustificare. La soluzione fu trovata ed ai quattro venne concessa l’opportunità di lavorare e di avere una chiesa a disposizione.
Era nata la Comunità della Madonnina. Per interessamento di Don Leone che, a suo modo, era stato un anticipatore dei preti-operai perché era riuscito a costruire una chiesa raccogliendo la carta, trovarono ospitalità nella “corte de Baeardèla”, cioè Ca’ dei Sordi. Era una tipica corte agricola usata spesso come luogo di accoglienza di lavoratori stagionali, di girovaghi, o di gente che aveva bisogno di sistemazioni provvisorie o di emergenza.
Ca’ dei Sordi diventò presto un punto di riferimento per chiunque fosse alla ricerca di qualcosa. Era il luogo d’incontro di sindacalisti, di studenti-lavoratori, di operai che avevano voglia di capire meglio i problemi della società, di donne che finalmente trovavano uno spazio  per far sentire la loro voce. Tutto questo in un vero clima di amicizia, anche se talvolta le discussioni erano molto animate e sembravano baruffe. Naturalmente in paese giungeva l’eco di quello che succedeva ed i preti della Madonnina vennero subito soprannominati “i Fedayn”. L’arrivo in Ca’ dei Sordi di una famiglia di profughi cileni, fuggiti dalla dittatura di Pinochet, rafforzò nella gente la convinzione che in paese fossero arrivati dei rivoluzionari. I fedeli tradizionali, le pie donne, i basabànchi, spaventati, abbandonarono la Madonnina e si rifugiarono sotto l’ala protettiva della chiesa grande, ma il santuario tanto caro ai Lupatotini non rimase vuoto. Anzi, si riempì come mai si era visto prima. E si riempì di gente che non aveva mai frequentato la chiesa o che vi aveva messo piede solo in rare occasioni. Ed in chiesa, adesso, la gente poteva prendere in mano il microfono e parlare. All’inizio, con difficoltà perché non era facile per nessuno trovare il coraggio di parlare in pubblico ma, un po’ alla volta, la gente prese confidenza anche col microfono e cominciò ad esprimersi.
Col passare del tempo, “i Fedayn” diventarono per il paese “i Butèi”, segno che non erano più visti  come rivoluzionari, ma come tutti gli altri giovani, che indossavano la tuta e andavano a lavorare.
Anche la corte di Ca’ dei Sordi non c’era più. Era stata abbattuta dai soliti speculatori che in questo paese sembrano averla sempre vinta.  Intanto, Sergio e Piergiorgio avevano fatto altre scelte ed alla Madonnina erano rimasti soltanto Gigi e Corrado, oggi diventati quasi un’istituzione per il paese e comunque un punto di riferimento per il centinaio di famiglie che oggi  partecipa alla Comunità.
Sulla loro esperienza, ciascuno può pensare quello che gli pare, ma credo d’interpretare il parere di molti se dico che questo paese li deve ringraziare per quello che hanno fatto e che ancora stanno facendo. Se poi uno è cristiano e quindi crede o spera in Gesù Cristo, li deve ringraziare doppiamente perché questi “butèi”,  preti lo sono davvero.
                                                                                                            Igino Maggiotto

Nelle foto: “i butèi” con degli amici

nella foto sotto: una veduta di Ca` dei Sordi

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Dopoguerra tra luci ed ombre

 

 

 

 

-dimenticate in fretta le sofferenze, la nuova generazione annuncia con il rock and  roll  l’inizio di un nuovo modo di vivere-

Passata la tempesta della seconda guerra mondiale, la vita comincia lentamente a riprendere il suo cammino.

Il 2 giugno 1946 l’Italia, attraverso il famoso referendum, sceglie la Repubblica.

Il 15 giugno torna il Giro d’Italia. Lo vince Bartali, secondo Coppi a 47 secondi. Riparte anche il campionato di calcio e lo vince il Torino capitanato da Valentino Mazzola. Nel 1947 torna anche la Mille Miglia e Tazio Nuvolari scatena il tifo sulle strade d’Italia. La gente si alza in piena notte per veder sfrecciare sulle strade cittadine quelle auto che allora venivano chiamate “bolidi”.

Ogni tanto tornano dei prigionieri dalla Russia alimentando nuove speranze nelle famiglie dei dispersi.

Il 18 aprile 1948 la Democrazie Cristiana vince le elezioni. In luglio Palmiro Togliatti è ferito in un attentato. Si teme il peggio ma fortunatamente tutto finisce bene, anche grazie alla vittoria di Bartali al Tour de France. Alle olimpiadi di Londra Adolfo Consolini da Costermano vince la medaglia d’oro nel lancio del disco. L’argento va a Peppone Tosi, un corazziere del Quirinale.

Anche a Lupatoto la vita riprende. Il paese, risparmiato dalle bombe, esce dal conflitto stremato, ma salvo, anche se sono troppi i caduti sui vari fronti. Le fabbriche riprendono a lavorare, sia pure in modo non continuativo. In cartiera, ad esempio, si lavora soltanto tre giorni alla settimana, ma è già qualcosa e si può tirare avanti.Alla gente torna un po’ alla volta la voglia di vivere. Nei cinema c’è la coda per vedere i drammoni interpretati da Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Alla domenica pomeriggio è d’obbligo il film western dove gli Indiani perdono sempre.

Siamo ormai negli anni Cinquanta. I bambini nati e cresciuti nei primi anni di guerra, che hanno fatto in tempo a conoscere le paure dei bombardamenti, degli oscuramenti, le sofferenze del freddo, della miseria e le difficoltà del dopoguerra, ora sono adolescenti ed avvertono per primi il vento del cambiamento che preannuncia il miracolo economico. I genitori, reduci da orribili esperienze, invitano alla prudenza, ma per i giovani il passato è presto dimenticato ed il futuro è già nelle loro mani. Una nuova generazione inventa un proprio stile di vita, con nuove idee, nuovi abbigliamenti,  nuovo cinema e nuova musica. Mandato in soffitta Nazzari con tutta la compagnia, ecco James Dean e la sua gioventù bruciata, mentre i dischi di Nilla Pizzi e Gino Latilla cedono ben presto il posto a quelli di Little Richard e Paul Anka. Gennaio 1958: a San Giovanni scoppia il finimondo. Nel bel mezzo di una tranquilla serata al Teatro Parrocchiale (ora Teatro Astra), un complessino di giovani si scatena in un travolgente rock and roll. E’ come un urlo di guerra. Il quieto e mite pubblico del teatro, abituato alle operette e ai dolci suoni di melodie ottocentesche, è colpito da uno shock elettrico che lo fa scattare in piedi dimenandosi e battendo le mani. Alcuni ragazzi delle prime file balzano sul palcoscenico esibendosi in frenetiche evoluzioni mentre l’intera  platea, in un crescendo di movimenti ed urla, si è trasformata in un salone da ballo. E che ballo! Mai niente di simile s’era visto nel nostro pacifico paese. Forse tutta quella baraonda era un grande gesto liberatorio per i troppi anni passati a  combattere popoli che non ci avevano fatto niente, a difendersi dagli orrori della guerra civile, a soccombere, ad obbedire, a lavorare soffrendo.

Da quel giorno il paese ha cominciato a vivere una nuova storia.

                                                                                                                    Igino Maggiotto 

 

 

 

 

 

 

Nella foto: uno dei primi gruppi rock     

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Le finestre del vicolo

Che questa storia sia vera o inventata, è argomento di discussione. Meglio sarebbe che la discussione avvenisse dopo un’approfondita ricerca, fatta possibilmente da tutti i protagonisti dell’ipotetico dibattito, in modo da avere tutti gli stessi elementi per esprimersi. Ma, come è noto, le discussioni nascono proprio dal fatto che gli interlocutori partono da diversi livelli di conoscenza, per cui l’argomentare di ciascuno è frutto  soltanto di ciò che uno crede di sapere, senza rendersi conto che il livello di chi ascolta potrebbe essere ben diverso. Non potendo ovviare all’inconveniente, mi limito a riportare la storia così come mi è stata raccontata da una delle protagoniste, una quindicina d’anni dopo il fatto.

Il 25 aprile 1945 il paese pullulava di partigiani, o meglio, di individui che si spacciavano per partigiani. Non soltanto il nostro. Tutti i paesi erano pieni di partigiani siffatti e così anche la città, dove una marea di gente marciava cantando inni che prima di quel giorno non si erano mai sentiti. I ponti di Verona erano stati fatti saltare dagli ultimi quattro tedeschi rimasti in città mentre tutta quella gente che ora marciava era chissà dove.

In quei giorni succedeva un po’ dappertutto che venissero pubblicamente rapate le donne accusate di aver collaborato con i fascisti o i tedeschi. Nessuno si curava di verificare i fatti ed accertare se le accusate fossero veramente colpevoli di qualcosa. Bastava che uno facesse una qualsiasi insinuazione, magari nei confronti di qualcuna che gli aveva detto di no, e per la disgraziata non c’era scampo. Sentenza subito emessa e subito eseguita. Non occorreva grande coraggio mettersi in cinque-sei contro una ragazza indifesa.

Ecco dunque alcuni di questi eroi del 25 aprile inseguire per i vicoli una donna che correva più che poteva. Non ci misero molto a raggiungerla e per la poveretta cominciò l’incubo. Infatti, quelli non volevano soltanto i suoi capelli.

Era una bella giornata di sole, ma le finestre del vicolo erano stranamente chiuse. Tutte, meno una.

“Lassèla star, farabuti!” – La voce era quella di un vecchio che si era affacciato agitando un bastone. “E cavève quei fassoleti, che no sì degni”. I fazzoletti in questione erano quelli rossi, che i partigiani si mettevano al collo o al braccio.

Passato il primo momento di stupore, il branco reagì aggredendo il vecchio e colpendolo con il suo stesso bastone. A quel punto, come per miracolo, cominciarono ad aprirsi alcune finestre e poi molte altre. Il vicolo intero fu tutto un urlare di donne: “Vigliachi! Porchi! Delinquenti!”

Le urla arrivarono lontano, tanto lontano da allertare una pattuglia alleata che prese a correre nel vicolo. Quelli del branco furono subito raggiunti e circondati. Le donne cercarono di spiegare quello che stava succedendo al capo pattuglia, un omone di colore alto due metri, che non ci mise molto a capire.

“Voi non partigiani, voi bandidos” – disse sputando in terra. Infatti i partigiani, quelli veri, arrivarono qualche ora dopo. Uno sparuto gruppo che veniva dalla montagna circondato da decine di curiosi. In altre località i partigiani erano stati davvero protagonisti nei giorni della liberazione, mentre qui da noi non si erano mai visti. Qualcuno disse che forse era stato meglio così.                                      

Il vecchio della finestra si ristabilì nel giro di un paio di giorni. Quando ricordava questa storia, diventava pallido dalla rabbia ed agitava il bastone come se avesse ancora davanti agli occhi quei delinquenti, non dimenticando mai di precisare che quegli aggressori li aveva visti altre volte in paese, alcuni mesi prima, ma allora indossavano la camicia nera. Le donne del vicolo parlarono dell’episodio per anni, raccontando che la ragazza aggredita, quello stesso giorno, lasciò il paese e non si rivide mai più.  Non si era mai interessata di politica. L’unica sua colpa era stata quella di innamorarsi di un giovane al quale non aveva chiesto se avesse  tessere di partito in tasca, ma soltanto se le voleva bene.

                                                                                                       Igino Maggiotto   

nella foto i alto:

nella foto sotto: Ca` dei sordi

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Bruno Sprea, musicista anarchico

Qualche volontà magica deve aver pensato ad una sorta di staffetta storica. Una staffetta di musicisti e poeti di cui cominciamo ad aver traccia a partire da Marcelliano Marcello, passando per Ceroni, Zanetti e via via tutti gli altri fino ai nostri giorni. Certamente c’era qualcun altro anche prima di Marcello, solo che a noi non è arrivata notizia, ma di sicuro c’era perché il polline della musica e della poesia viaggia nel tempo senza ostacoli e feconda qualcuno in ogni epoca.

Quando arrivò su Bruno Sprea attaccò subito regalando a Lupatoto un grande personaggio che non viene ricordato per quello che ha scritto, ma per quello che ha fatto. Il suo capolavoro, infatti, consiste nell’aver insegnato la musica a centinaia di allievi di tre generazioni. La sua, comunque, non era solo scuola di musica, ma scuola di vita. Con lui si poteva parlare di tutto, compresi gli argomenti più impegnativi. Spesso si faceva notte fonda a discutere di filosofia, di religione o a giocare interminabili partite a scacchi.

Era nato almeno cinquant’anni in anticipo e questo significò durissimi scontri con le autorità del tempo, quelle politiche ma soprattutto quelle religiose. Ci voleva davvero del coraggio a gestire, negli anni Venti, un cinema con varietà. Lo scandalo era assicurato ma il cinema era sempre pieno. Una processione religiosa, con il parroco in testa, cambiò itinerario per non passare davanti al cinema con tutti quei cartelloni scandalosi che Sprea si era rifiutato di togliere per il passaggio dei fedeli. Sono di quel periodo le prime orchestrine organizzati dal maestro. Erano composte da chitarre e mandolini e servivano ad accompagnare dal vivo i film muti o ad animare feste popolari inventate ed organizzate dallo stesso maestro. Come la Festa delle Viole, all’Adige, con l’orchestra che arrivava al Porto su un carro pieno di fiori. Un vero inno alla vita. E un vero tormento per il parroco che vedeva i fedeli disobbedire in massa alle sue raccomandazioni di stare lontani dal ballo, a quei tempi considerato la più pericolosa occasione di peccato.       

L’uomo era un perfetto anarchico. Non tollerava nessuna autorità. E’ un miracolo che abbia passato indenne il ventennio. A salvarlo è stata la musica che piaceva anche ai ricconi lupatotini che lo invitavano spesso a suonare nelle loro feste e quindi in qualche modo lo proteggevano . In paese c’è ancora qualcuno che le ricorda e ne parla come di qualcosa che si vedeva soltanto al cinema.

Tuttavia la guerra lasciò il segno anche su di lui, colpito dal dolore più grande. Suo figlio Brunetto partì per la Russia insieme a tanti altri giovani lupatotini, ma fu tra quelli che non fecero più ritorno.

Fu uno dei tanti dati per dispersi e il nostro maestro sperò a lungo in un miracolo. Ogni tanto i giornali davano notizia di qualcuno che tornava, anche dopo anni, ma Brunetto non tornò più.

Dovettero passare molti anni prima di vedere il maestro rassegnato.   

Grande era la sua diffidenza verso il potere, eppure c’era sempre qualcuno che  dava spazio ai suoi gruppi musicali. Eccolo allora a dirigere la banda del paese. Alla sua maniera, naturalmente, cioè con fantasia e originalità. Si ricorda ancora un concerto davanti alla Madonnina con la gente a chiedersi da dove venisse un dolcissimo canto d’usignolo che interveniva ogni tanto, mentre i fiati tacevano. L’usignolo era lui che suonava un ottavino dal campanile. Infatti quello era l’unico strumento che suonava. Lo avevano chiamato a suonare anche in Arena, nonostante fosse un autodidatta e non avesse mai messo piede in un conservatorio.

Un parroco finalmente lungimirante riuscì a convincerlo a formare un coro in chiesa. La cosa fece molto scalpore perché tutti ricordavano le vecchie battaglie tra il maestro e i preti. Il risultato fu una chiesa stracolma di gente, un successo clamoroso ricordato con emozione per molto, molto tempo. 

Dopo la guerra, nel 1950, inventò un complesso di fisarmoniche formato da ragazzi dai dieci ai sedici anni, un gruppo che gli diede molte soddisfazioni e che sopravvive ancor oggi quasi al completo, anche se quei ragazzini sono ormai più volte nonni. Se un maestro ha saputo fare tanto, vuol dire che è stato un grande maestro    

Morì da solo, all’ospedale di Zevio. Non voleva farsi vedere malato dai suoi allievi.    

                                                                             Igino Maggiotto 

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Camillo Pasti, eroe per vocazione

Parlare oggi di un uomo come Camillo Pasti sembra un esercizio inutile, di scarso interesse per noi che viviamo in un tempo che sembra così lontano dal suo. Anche se non sono passati neanche novant’anni dalla morte, tutto ciò che è avvenuto in quel tempo ci sembra così distante e soprattutto così assurdo, da lasciarci quasi indifferenti, come se quel passato non ci appartenesse.

Se a questo aggiungiamo che il personaggio era nato da una famiglia ricca nel periodo in cui a San Giovanni Lupatoto erano quasi tutti poveri, ce n’è abbastanza per capire il motivo dello scarso interesse per la sua storia. Proviamo allora a porci alcune domande. Come mai un giovanotto di diciotto anni, ricco, di bell’aspetto, libero di gestire la propria vita come meglio crede, appena giunto al Politecnico di Torino, abbraccia  la causa degli irredentisti trentini facendone lo scopo della propria esistenza? Forse per l’amicizia con Damiano Chiesa che frequentava il nostro paese perché qui aveva la morosa? O la venerazione per Ergisto Bezzi, il colonnello garibaldino eroe di Bezzecca che non faceva altro che ripetere ai giovani studenti  che bisognava liberare Trento e Trieste?

Sentite come parla di quel periodo Plinio Marconi, un caro amico sia di Camillo che di Damiano: “La vita non era più che una ricerca tormentosa di elementi nuovi, un susseguirsi di tentativi spesso vani ed infecondi: tutto era attesa e dubbio. Sapevamo di essere al limite di un’epoca che doveva essere tutta vinta, tutta conquistata dai giovani. Il bisogno di distruggere il vecchio mondo e di cooperare alla nascita d’un altro più sano, più forte e libero era nei migliori.”     

Eccoli quindi a fondare un giornale, “L’ora presente”, finanziato quasi interamente proprio da Camillo che pensa a tutto, provvedendo anche alla spedizione ed alla distribuzione. Il motto del giornale “libera palestra di liberi spiriti” la dice lunga sulle intenzioni dei baldi giovanotti che vediamo nella foto. Ma questo per loro non basta. Non basta soprattutto a Damiano e Camillo che sentono un impellente bisogno d’azione e per azione loro intendono combattimento.

Eppure erano giovani romantici dal carattere gentile. Sentite cosa dice Camillo, amante della montagna, a proposito di una scalata non completata al Gran Paradiso: “un rimorso ci tormenta continuamente, perché arrivati a così poco dalla vetta, non compimmo l’ultimo sforzo. Forse non volemmo andare in Paradiso troppo presto”. Fra le altre doti, aveva quindi anche quella di riuscire ad essere ironico con se stesso.

Come fa un giovane così a decidere di sacrificare la vita in guerra? Guerra! Una parola oscena che ci fa rabbrividire, ma che a quei giovani sembrava l’unica soluzione ai problemi della nazione.

Camillo volle anticipare i tempi e, pur di partire per il fronte, non aspettò i tempi dell’accademia per diventare ufficiale. Andò come soldato semplice a fare l’artigliere di montagna, guadagnandosi successivamente sul campo i gradi di sottufficiale. Prima di partire, diede istruzioni alla madre di destinare duecento lire mensili (più o meno mille euro di oggi) alle famiglie povere dei richiamati lupatotini, raccomandando di non dire niente a nessuno.

Nel suo foglio matricolare, alla data del 19 ottobre 1915, si legge: “encomiato solennemente pel seguente motivo: osservatore del tiro, rimaneva per tutta l’azione, durata oltre quattro ore, nel posto assegnato, sul quale il nemico aveva aggiustato il tiro delle sue artiglierie. Calmo e sereno, intento solamente all’adempimento del suo dovere, con opportune informazioni ed indicazioni, fu d’efficace aiuto al comandante della batteria”.

Morì in combattimento il 2 giugno 1916. Ebbe la medaglia d’argento ed il bollettino ufficiale della ricompensa al valore così riportò: “Comandante di un pezzo isolato di artiglieria da montagna, fatto segno, durante il tiro, a fuoco preciso di tre batterie nemiche di medio e piccolo calibro, perseverò, con freddo coraggio, nel compito assegnatogli, finchè cadde colpito a morte”.

Erano passati soltanto quattordici giorni dalla fucilazione dell’amico Damiano Chiesa.

                                                                                                                  Igino Maggiotto

 

 

Foto del gruppo: la redazione dell’Ora Presente. Camillo Pasti è in ginocchio, col cappello chiaro. Dietro a tutti, in alto, Damiano Chiesa.   

 

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Ottavio Zanetti, poeta dimenticato

 

  

 

Ottavio Zanetti, dimenticato poeta lupatotino, in una delle sue più belle poesie, “el rossignol”, parla di un bosco, della sua frescura e dei rami che nascondono un po’ di luna. Leggiamo insieme:

   Quando, tramontà el sol da qualche ora,

                                   el bosco el trema par la so frescura

                                   e le rame le sconde un po’ de luna,

                                   con du colpeti d’ala el rossignol

                                   salta sul palco de na piopa pigna.

                                   Sensa maestri e sensa professori

                                   a lu ghe basta de compagnamento

                                   el rumor che fa l’aqua de le fosse

                                   e le foie che scissola e ‘l respiro,

                                   che sa da bon, de sta gran note ciara.

 

Il bosco di cui si parla è senz’altro quello che si vede nella foto e le fosse erano quelle che scorrevano dietro la villa dei Palazzoli. Per la sensibilità del poeta lo scenario è ideale per il concerto del suo “rossignol”, accompagnato dal rumore dell’acqua e dal fruscìo delle foglie che diventa il “respiro” della notte.

Oggi, di tutto questo rimane ben poco. Una serie incredibile di amministratori, sensibili a tutto meno che alla poesia, ha distrutto tutto quello che c’era da distruggere e adesso del grande bosco  restano solo poche piante vicino alla villa. E’ un vero peccato perché una macchia verde di alberi secolari in mezzo al paese oggi costituirebbe un prezioso patrimonio per tutti. Purtroppo il bosco non è stato il solo ad essere vittima dell’ignoranza e dell’ingordigia. Hanno fatto la stessa fine il Torricello, la torre del Cotonificio e la corte di Ca’ dei Sordi. Basta guardare cosa c’è oggi al loro posto per avere un’idea dello squallore culturale che ha accompagnato la crescita del nostro paese dal dopoguerra fino ai primi anni Novanta.

Ci restano i versi del poeta, questo è vero, ma fra poco spariranno anche quelli perché sono ben pochi ormai quelli che li ricordano. C’è un suo libriccino, in biblioteca, “La campana de Sorio”, nascosto tra grossi volumi e, se non se fanno un po’ di copie, andrà a finire che sparirà anche quello.

Eppure Ottavio Zanetti meriterebbe di essere ricordato. Le poesie che ci ha lasciato non sono molte, però sono significative e rappresentano comunque un periodo non lontanissimo della storia del nostro paese che varrebbe la pena di studiare con più attenzione di quanto non sia stato fatto fino ad oggi. Zanetti, nella prima guerra mondiale, è stato prima ufficiale di fanteria  e poi aviatore. Aveva studiato al Maffei, ma aveva dovuto lasciare gli studi. La laurea riuscì ad ottenerla quando era ormai nell’età di mezzo. Poesie ne aveva sempre scritte, ma circolavano soltanto fra gli amici. Si decise a mostrarsi in pubblico soltanto nel 1952 vincendo il prestigioso concorso “Il grappolo d’oro”. L’anno dopo, purtroppo, morì lasciando ben poco di tutto quello che aveva scritto.

Quel poco, comunque, è rimasto ancora nella memoria, anche se di poche persone. Quando cominciai il ginnasio al  Maffei, erano passati molti anni dai tempi del nostro poeta. Eppure un professore di lettere, quando seppe da dove venivo, disse che se Verona aveva avuto Barbarani, San Giovanni Lupatoto aveva avuto Zanetti e si mise a recitare alcuni versi dove si raccontava di tale Bepi Nigossa che aveva colpito “con la scaia” un capo uomini “ingordo e manesco”. I miei compagni si erano messi tutti a ridere alla descrizione del personaggio cattivo: “imbriago marso, in meso a ‘na stradela, impastrocià de bigoli e sardela”.

So bene che oggi gli interessi sono ben altri e che quei versi fanno sorridere, ma anche vivendo il nostro tempo è possibile, guardando una vecchia foto, pensare alla storia come ad una corsa a staffetta dove il testimone è rappresentato dalla poesia che i poeti di tutti i tempi hanno consegnato a quelli che sono venuti dopo di loro.                   

                                                                                                                                   Igino Maggiotto

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